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Esce “Il Labirinto del Silenzio”, il film che risveglia la coscienza tedesca

Esce “Il Labirinto del Silenzio”, il film che risveglia la coscienza tedesca
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Arriva nelle sale “Il Labirinto del Silenzio“, film di Giulio Ricciarelli scelto dalla Germania per partecipare all’Oscar nella categoria Miglior Film in lingua straniera.

Film consigliato per le scuole secondarie di 1° e 2° grado, può essere visto da venerdì 15 a domenica 17 al Cinema Don Bosco di Macerata con proiezioni alle ore 20,00 e 22,30.

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Per la sua prima volta dietro alla macchina da presa Giulio Ricciarelli non ha scelto né il cinema di genere, né uno stile invadente, né la facile strada della citazione. Spinto da un bisogno che certamente ha a che fare con la sua storia di italiano trapiantato in terra tedesca, il neoregista ha voluto tuffarsi nella Germania di fine anni Cinquanta, paese in ripresa economica combattuto fra la voglia di dimenticare e deresponsabilizzarsi e l’impossibilità di venire a patti con il senso di colpa.

Il film racconta la storia di un giovane pubblico ministero Johann Radmann che decide di mettersi alla ricerca della verità alla fine degli anni ’50 e combattendo contro ogni ostacolo immaginabile, supera i suoi limiti e quelli di un sistema, dove è più facile dimenticare che ricordare.

Sullo sfondo di eventi realmente accaduti, ‘Il labirinto del silenzio’ getta uno sguardo molto personale e particolare sullo stile di vita degli anni del “miracolo economico”,  in cui le persone volevano solo dimenticare il passato e guardare avanti. Il film racconta in maniera emozionante un capitolo poco noto di quegli anni, che fondamentalmente hanno cambiato il modo in cui la Germania guardava al suo passato. Un’emozionante storia di coraggio, responsabilità e di lotta per la giustizia.

Il giovane procuratore alle prese con i primi noiosi incarichi (Johann Radmann, interpretato da Alexander Fehling) si imbatte in un giornalista (Thomas Gnielka – Gert Voss), grazie al quale viene in possesso di alcune carte. Apprende che un vecchio soldato nazista, attivo in un campo di nome Auschwitz, è attualmente in ruolo come professore in una scuola elementare, il che, secondo lui, non è ammissibile. Di Auschwitz però apparentemente nessuno sa un granché, se non che si trattava di un campo di lavoro e che un ex soldato sia stato reintegrato nella normale società è cosa ordinaria, poiché la Germania nazista è stata già giudicata a Norimberga ed è evidentemente impossibile escludere dalla vita del dopoguerra chiunque avesse un ruolo nel capillare apparato del Reich. Sarà grazie a delle testimonianze e a una ricerca personale che il protagonista inizierà a comprendere la realtà del campo polacco e gli sarà affidata l’indagine sui responsabili di ciò che vi accadeva. È qui che il giovane magistrato, fresco delle utopie di resurrezione della Germania e convinto che del nazismo si sapesse già quasi tutto, inizia ad addentrarsi nel Labirinto del Silenzio.

Giulio Ricciardelli, regista del film, ha compiuto una scelta netta e audace: girare un film sul nazismo senza mostrare una sola uniforme militare o camera a gas. Vuole applicare al suo racconto un genere che provi a renderlo non “un altro film sui nazisti e sugli orrori della guerra”, visto lo stuolo di precedenti illustri. Sceglie il thriller, quasi poliziesco, in cui un irrequieto e idealista pubblico ministero si ritrova a indagare, come già detto, su un insegnante delle elementari, ex comandante ad Auschwitz. Johann Radmann, infatti, s’intestardisce nel dimostrare che quell’insegnante, Charles Schultz, non può educare dei bambini se è stato complice di un reato ancora non identificato: nel 1958 nessuno, tranne le vittime e i carnefici, sa con precisione cosa sia successo ad Auschwitz e negli altri campi di concentramento e sterminio. Ben presto Radmann si rende conto che ogni ex-nazista, ora civile, ha un amico nel governo. Il suo superiore, Fritz Bauer, lo mette in guardia dall’usare metodi spicci per trovare e punire personaggi come Josef Mengele o Adolf Eichmann, ma lo sgomento e la rabbia di Johann gl’impediscono di essere sempre lucido. Tutti intorno a lui sembrano avere qualcosa da nascondere: sua madre e suo padre, scomparso da quindici anni, la sua fidanzata. Si rischia d’impazzire quando si è certi di una cosa, si accumulano le prove per dimostrarla ma continuano a sorgere barriere tra sé e la giustizia. Alcuni di questi muri è lo stesso Johann a erigerli: guarda sempre più in fondo nella rete di omertà e del “stavo solo eseguendo degli ordini” ma non riesce più a voler bene a chi gli sta accanto, accecato dalla voglia – legittima – di punire i colpevoli. I conflitti interiori s’intrecciano con quelli professionali, le certezze sulla propria identità si sfaldano, ma il meccanismo narrativo dell’indagine che, prima o poi, avrà una conclusione – positiva o negativa che sia – ci tiene ben saldi alla poltrona.

Ricciarelli, 50 anni e figlio di immigrati italiani, è bravo a raccontare qualcosa che “nessuno ha visto” senza farcela vedere.

Le foto che Johann usa come prove degli esperimenti di Mengele sono davanti a noi ma ce ne viene mostrato solo il retro. Le voci delle vittime non le sentiamo, dobbiamo accontentarci dei loro cenni d’assenso o delle lacrime che non riescono più a versare. Possiamo solo guardare – da lontano – registri e faldoni pieni di nomi, inchiostro, memoria collettiva che finalmente si mette al servizio della società.

Proprio per l’importanza del tema che affronta – e che fa inevitabilmente pensare all’ignoranza e alla disinformazione dell’oggi ­– il film è stato scelto dalla Germania per la corsa all’Oscar, cosa che, ovviamente, ha reso Ricciarelli molto felice. A spingerlo a mettersi al lavoro, tuttavia, più che la voglia di strappare un premio o piacere al pubblico, è stata la necessità di riportare alla luce cose quasi dimenticate: “Il tema forte de Il labirinto del silenzio” – come ha spiegato il regista  stesso -durante la conferenza stampa di presentazione del film – “è che narra una storia sconosciuta in Germania, che lui stesso non  conosceva; pur essendo  cresciuto in Germania, sapeva tutto fino al ‘45, quasi nulla sugli anni immediatamente successivi, quindi si è detto: ‘Noi dobbiamo proprio raccontare questa storia’. Negli anni ’50 la Germania voleva rimuovere l’Olocausto, perfino Friz Bauer era ignoto ai più. Nessuna piazza era dedicata a lui, è rimasto a lungo un eroe invisibile, dimenticato. Il processo di Francoforte è merito suo. Bauer non poteva condurre le indagini, ma grazie a una lista fornitagli dal giornalista Thomas Gnielka avviò il processo, affidandolo a giovani procuratori che sapeva non essere coinvolti con il Nazismo. Bauer voleva educare il popolo tedesco, sottolineando che Mengele era sì un demone, ma i carnefici erano tutti coloro che avevano operato nei campi di sterminio”.

Il labirinto del silenzio non ha le ingenuità di tante opere prime, ma è solido sia da un punto di vista contenutistico che formale, tanto che lo si può tranquillamente definire un film classico nel senso migliore del termine. Per Ricciarelli questa cifra stilistica ha a che vedere con un’esigenza di chiarezza: “Ho provato a fare un film accessibile al pubblico, un film quasi commerciale. La struttura drammatica doveva essere classica, rigorosa. Abbiamo cercato di essere precisi anche nella ricostruzione dei fatti, anche se Johan non è un personaggio realmente esistito, ma un miscuglio di tre diversi procuratori”. Per interpretare questo personaggio è stato scelto Alexander Fehling fin dall’inizio, perché sembrava al regista perfetto per il ruolo. L’attore che avrebbe impersonato il giornalista doveva essere diversissimo da lui, perché è bene che in un film corale ogni attore abbia una sua particolarità.  L’attore che interpreta il giornalista (André Szymanski) viene dal teatro; negli anni ‘50 la gente parlava in modo diverso, più educato, chi non si è formato sul palcoscenico non riesce a capire questa differenza.

Giulio Ricciarelli non ha scatenato polemiche con il suo film né reazioni da parte dalla destra neonazista, il che testimonia sicuramente dell’importanza che la Germania ancora dà al valore della memoria: il mondo del cinema e il mondo della destra neonazista non si sfiorano, e la cosa un po’  rammarica il regista perché gli piacerebbe che anche quelle persone vedessero il suo film e riflettessero. La Germania è un po’ stanca di parlare dell’Olocausto, ma continua a ‘lavorare’ sulla memoria. In Germania, se uno nega l’Olocausto, commette un reato.

Il regista è dell’avviso che  i film sull’Olocausto non saranno mai troppi e nella conferenza stampa de Il labirinto del silenzio testualmente afferma: ”sono nato nel ’65, non sono colpevole dell’Olocausto, ma da tedesco sono responsabile e questa è una cosa che nessuno cancellerà mai. Il mondo ancora oggi guarda la Germania pensando all’Olocausto. Siamo sempre lo stesso popolo”.

 

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